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Skannatoio Maggio - Giugno 2021 - POLLY RUSSELL, TESSAGLIA: OPERAZIONE M.I.S.H.A.

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view post Posted on 26/5/2021, 07:02
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Allora... racconto completato e riletto.

A furia di tagliare sono a quota 12K e potrei aggiungere qualche scena qui e lì per evitare che sembri che accada tutto troppo in fretta.

Ditemi, rileggo nella (vana) speranza di eliminare qualche errore di battitura o prolungate il tempo e magari provo ad appiccicarci postuma qualche scena?
 
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view post Posted on 26/5/2021, 21:17
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Custode di Ryelh
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CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 26/5/2021, 08:02) 
Allora... racconto completato e riletto.

A furia di tagliare sono a quota 12K e potrei aggiungere qualche scena qui e lì per evitare che sembri che accada tutto troppo in fretta.

Ditemi, rileggo nella (vana) speranza di eliminare qualche errore di battitura o prolungate il tempo e magari provo ad appiccicarci postuma qualche scena?

Nessuno risponde... mi appello al nostro giudice!!
 
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view post Posted on 27/5/2021, 15:15

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M.I.S.H.A. IL TEMA DEVE ESSERE QUELLO DEL RISCATTO. MI PIACEREBBE LEGGERE DI COME IL PROTAGONISTA LOTTA PER RECUPERARE QUELLO CHE GLI È STATO PORTATO VIA.
SPECIFICHE:
IL LUPO
AMBIENTAZIONE CYBERPUNK

Lezione di demonologia

Di Alexandra Fischer

Ute si guardò nello specchio della propria stanza da letto e insultò se stessa.
Ma guardati, gli angoli degli occhi e delle labbra segnati e il volto smunto. Fai schifo. È per questo che hai perso l’appartenenza al circolo della Emmeline.
Uscì dalla propria stanza e andò in salotto dove vide la bottiglia e la figuretta nera che vi nuotava all’interno; no, non era un’allucinazione per aver bevuto troppo.
Ute si avvicinò circospetta: sapeva come andava con quella bestiaccia, un movimento brusco l’avrebbe fatta sparire come la borsa che conteneva tutta la sua vita: carte di credito, identità SPID, la scheda da viaggio prepagata e la carta d’identità.
La sua borsa le era stata sottratta con l’inganno, in cambio di quella maledetta bottiglia.
Ma lei doveva riprendersela con la forza.
Forza.
Si sedette di fronte alla bottiglia con dentro il lupo che ci nuotava dentro e rivisse la sera nella quale era rimasta ferma all’uscita della festa, quando la sua distrazione era arrivata al culmine.
La borsetta rossa di perline che teneva in mano con noncuranza le era sfuggita di mano senza che lei se ne accorgesse come in un numero di magia: c’era e non c’è più.
Ed era stato allora che il lupo le aveva tagliato la strada, grigio e con un collare color arancio fluorescente.
Il suo passaggio l’aveva tagliata fuori dal gruppo degli amici e da Enrico.
Lei ricordò la propria frase contro il lupo, fermatosi a fissarla con gli occhi freddi e gialli come due stelle lontane.
Maledetto. Darei via tutto quanto pur di non avere mai più contrattempi di questo tipo.
Dietro al lupo era comparsa un’anziana donna, malferma sulle gambe e con un bastone di legno nero dall’impugnatura a testa di lupo.
Ute era rimasta colpita dal cipiglio di lei si era vista puntare contro il bastone.
Gli occhiali a catenella dell’anziana donna avevano mandato bagliori gelidi: − Offendere così il mio Schatzi. Dovresti vergognarti. Sai che dico? Se non apprezzi ciò che hai, faremo cambio.
La donna le aveva lanciato contro il bastone e Ute si era spostata, ma un capogiro improvviso l’aveva assalita, annebbiandole la vista e obbligandola a stendersi sul marciapiede gelido; si era rialzata con in mano qualcosa.

Nelle ore successive il suo sonno era stato disturbato da immagini di un tempio fatto di archi attraversati da un vento da un vento gelido, immerso nell’oscurità intervallata da tanti piccoli punti gialli e ululati rabbiosi: a ogni frammento dell’incubo era sempre più vicina e poteva contare solo su una torcia sul punto di spegnersi, mentre nelle orecchie aveva la risata di una donna molto vecchia, un suono ogni volta più vicino.
Andò in bagno e poi passò in salotto: sul tavolo c’era la bottiglia piena di un liquido trasparente nel quale nuotava una piccola scultura di metallo nero a forma di lupo dalle fauci spalancate.
Ripensò all’anziana donna e alla propria abitudine di tenere la borsa rossa di perline sul tavolo.
L’angoscia la morse; si mise a cercare la borsa per tutto il salotto; quando si era rialzata dalla sua ispezione della parte inferiore del divano, nutriva ancora qualche speranza.
Era passata alla camera da letto, e rivoltato l’armadio a quattro stagioni, il settimanale, il comodino: la paura aveva cominciato a farsi sentire.
Allora era passata al bagno come ultimo tentativo raccontandosi la bugia della sbronza talmente forte da averle fatto lasciare la borsa nel bagno, magari sopra il cestino della biancheria sporca.
Invece, quando era arrivata a rivoltarlo, si era dovuta arrendere: la borsa con dentro la sua identità era finita chissà dove.
Un senso di urgenza la colse; chiunque si fosse impadronito di quel contenuto le avrebbe causato dei guai a non finire.
Senza pensare alla reazione dei padroni di casa, della banca, del direttore d’azienda.
Doveva scuotersi e concentrarsi: la sua prima azione fu di accendere il notebook e mettersi a fare ricerche sulle bottiglie di quel tipo.
La sua mente, per quanto ancora annebbiata, aveva formato due parole: bottiglia con demone.
E la voce era femminile, sì, ricordava anche quello.
La sua ricerca di Rete l’aiutò parecchio, ma non nel modo in cui si aspettava: la bottiglia faceva parte della Camera delle Meraviglie del Museo Cittadino.
Rabbrividì di paura quando lesse l’articolo: ‟Secondo alcune teorie demonologiche, contiene un amuleto in grado di evocare lo Spirito Lupo. È una magia di tipo simbiotico. Chi svita il tappo, dovrà convivere con la creatura.”
Ute si preparò un caffè forte e amaro per risvegliarsi del tutto.
Maledetta canaglia. Perché lo hai fatto? Non capisco perché ti sei liberata di un reperto così ingombrante rifilandolo proprio a me. E prendendoti la mia borsa.
Suonarono alla porta.
Lei guardò dallo spioncino e riconobbe la collega: − Martha, scusami, ma la sveglia oggi non ha suonato. Dammi il tempo di vestirmi −. Si precipitò in camera da letto e indossò la tuta di ciniglia.
Almeno posso sfruttarla anche in ufficio. Se solo mi ricordassi di che dannato giorno è.
Aprì la porta alla collega e la vide in jeans, giaccone e berretto.
Ute la fece entrare sollevata.
Se non è in tailleur e scarpe con i tacchi, vuol dire che oggi è domenica. Almeno quello.
Sorrise alla collega: − Martha cara, accomodati. Caffè?
Martha la guardò a occhi spalancati: − Veramente, ti avevo telefonato stamattina per proporti una gita al castello dei Marchesi Robilon, ma tua nonna mi ha risposto che stavi male.
Ute si portò la mano alla testa: − Sì, in effetti ieri ho esagerato. Povera donna, si preoccupa sempre per me.
Martha, se tu sapessi. Non ho più nonne, però quel numero mi serve.
Ute strizzò gli occhi: − Che mal di testa. Non mi hai detto di quel caffè. Lo vuoi o no?
Martha scosse la testa e Ute trasse un profondo sospiro: − Mi dispiace di averti fatta venire qui a vuoto, bisogna che avverta gli altri.
La collega le mise una mano sulla sua: − Non è il caso. L’ho fatto io.
Ute si tirò indietro: − Insisto −. Rovistò nella borsa e si mise le mani nei capelli: − Cielo. Non trovo più il cellulare. Ho paura che la nonna lo abbia preso per sbaglio. Prima di andare via mi ha costretta a mostrarglielo diverse volte per assicurarsi che avessi il suo numero e l’avrei chiamata. Puoi prestarmi il tuo?
Martha lo prese dal borsello: − Ecco, rassicurala da parte mia.
Ute prese prima carta e penna: − Scusa, è meglio che prenda nota. Ha cambiato numero di recente −. Trascrisse il numero e il nome: Hilde Stein e prese il cellulare: − Pronto, nonna Hilde? Ora va molto meglio. Il mio cellulare è da te? Se posso portare Schatzi a fare un giro? Ma sicuro, a dopo.
Restituì il telefonino alla collega con un sorriso: − Grazie. Mi hai proprio salvata.
La collega rimise il cellulare nella borsetta e la guardò con la testa inclinata di lato: − Ne sono felice, ma è meglio che tu abbia rinunciato alla gita. Penso che dovresti riposarti. Domani avremo parecchio da fare, in ufficio.
Ute abbassò la testa, sbadigliò e si alzò: − Hai ragione, guarda, mi stenderò appena sarai andata via.
Martha annuì Ute l’accompagnò alla porta con passo strascicato; non appena fu sola, prese una borsetta di riserva e il contante che ci aveva nascosto dentro.
***
Ute corse e comperò un cellulare usa e getta e si sedette su una panchina del parco, approfittando della mattina domenicale scarsa di presenze.
La risposta che udì dall’altro capo del filo la raggelò: ‟Risponde la segreteria telefonica della professoressa Hilde Stein. Potete lasciare un messaggio dopo il segnale acustico.”
Premette il tasto di fine chiamata e si mise a camminare lungo il parco, in preda alla preoccupazione: se davvero si trattava di una docente, oltre a essere una spostata cleptomane, doveva insegnare all’università cittadina.
***
Ute rincasò e si mise a cercare il nome della docente: già al primo click apparvero numerose pubblicazioni legate alle scienze occulte nel contesto del folklore e della demonologia, ma quando proseguì la ricerca, notò che l’anziana donna era identica alla strega che le aveva lasciato la bottiglia in cambio della borsa.
Restrinse il campo della ricerca: le bastò digitare Hilda Stein, antropologa e gli estremi dell’università cittadina per trovarla.
Si alzò dalla postazione torcendosi le mani.
D’accordo, l’ho trovata. E allora? Non posso certo andare da lei e dirle di ridarmi la borsa perché mi sono pentita di aver detto delle parole brutte in un momento di sconforto. Ora rivorrei davvero la mia vita indietro.
Ute si rosicchiò le unghie mentre rifletteva: certo non poteva mettere a repentaglio il lavoro per correre dietro a quella pazza, così si risedette al computer e controllò gli orari delle lezioni universitarie.
***
L’aula con i banchi ad anfiteatro era quasi vuota, i finestroni erano bui: il dipartimento di Antropologia, Etnologia e Folklore era all’ultimo piano.
Ute, per un attimo, rivisse le proprie lezioni al liceo nelle mattine invernali; a completare l’atmosfera, anche la cattedra vuota della docente.
La sua impressione venne smentita quando fissò l’orologio quadrato appeso alla parete: le cifre segnavano le 21,15.
Le venne da sbadigliare, per via della stanchezza del lavoro; come tutti, era dovuta uscire mezz’ora dopo.
Per quello Martha si era preoccupata tanto per lei.
Prima di andare all’Università, si era comperata un panino e una bibita, ma non li aveva ancora consumati per via della tensione.
Nella borsa, c’era anche la bottiglia.
Il rumore di una porta che si apriva, la riscosse dal torpore e la docente entrò con la borsa rossa che lei cercava con tanto accanimento.
Hilda Stein la posò sulla cattedra e aprì la valigetta con il materiale didattico, dopodiché si sistemò gli occhiali: − Buona sera a tutti. Oggi parleremo del tema dello scambio.
I pochi studenti tirarono fuori il necessario per gli appunti, chi carta e penna, chi un’agenda elettronica, e chi un cellulare con la modalità di registrazione audio e video.
Solo Ute rimase seduta con le braccia intorno alla borsa; la docente cominciò la lezione: − A partire dalle ricerche sui rituali di scambio di doni fra contadini e streghe condotte da Giovanni Remoglio e Ludwig Gessner nella zona archeologica di Roma negli Anni Sessanta, possiamo stabilire con certezza che la magia è una forma di controllo sugli altri e che lo scambio di doni è un patto irreversibile.
La docente si alzò con un piccolo oggetto bianco in mano e lo posò in un angolo della cattedra: l’aula si riempì di colonne e archi.
A Ute venne in mente un’illustrazione del libro del liceo.
Foro Imperiale.
Hilda Stein sorrise alla classe. – Quella che state vedendo attraverso il beacon è una tipica ricostruzione di un’ambientazione romana. Il Foro Imperiale, così com’era ai tempi in cui il rituale del Demone Lupo cominciò a celebrarsi. Venne inventato dal gruppo staccatosi dai celebranti dei Lupercalia, ritenuti dalla fondatrice di carattere troppo debole.
Ute rabbrividì alle parole della docente; i suoi ricordi scolastici la riportavano a una festa disordinata, dove l’ordine sociale era sovvertito e lo schiavo poteva picchiare il padrone.
Non poteva tollerare che potesse esistere qualcosa di più sfrenato.
Decise di assecondare il proprio istinto; si alzò e scese i gradini che portavano alla cattedra.
Hilda Stein la guardò con un lampo di riconoscimento, ma usò una fredda cortesia: − Piacere di conoscerla. Lei è un’uditrice? Se ha qualcosa da chiedermi, potrà farlo dopo la lezione.
Ute indicò la propria borsa e le sussurrò: − Ho la bottiglia con il lupo, quella rubata. Lei ha la mia borsa. E non credo nell’irreversibilità degli scambi.
La docente si alzò di scatto dalla sedia e si rivolse agli allievi: − Oggi assisterete a un esempio pratico di questa teoria.
Ute si girò verso i banchi: − No, mente −. Rimase agghiacciata nel vedere le espressioni sui loro volti: erano fameliche, lupesche, dalle loro gole salì un mugolio che si trasformò in un ringhio collettivo e sui volti di uomini e donne era comparsa una peluria grigia; non poté più sopportare di guardare e si girò verso Hilda Stein; sentì alle sue spalle un rumore di zampe che grattava il pavimento e ricorse al coraggio della disperazione; tirò fuori la bottiglia con le mani che tremavano e si sentì come Gretel davanti al forno insieme alla strega cattiva; tolse via il tappo mettendo a tacere i ringhi e la docente si mise a ridere, mentre le passava la borsa rossa: − Rieccoti la tua identità. Te la meriti, soprattutto per avermi liberata da lui − Ute seguì con lo sguardo il dito della professoressa e vide il minuscolo lupo di metallo muoversi verso di lei come l’ago di una bussola magnetica; la sua mano scattò come una molla e le sue dita si strinsero sul piccolo lupo, caldo e palpitante al tocco; prese la borsa rossa con l’altra mano e rivolse uno sguardo disperato alla docente: − Ma non c’è modo di liberarsene?
Hilda Stein si sistemò una ciocca di capelli: − No, purtroppo. Lo Spirito Lupo mi si attaccò quando mi sentivo come te quella sera. Ero una giovane ricercatrice frustrata e la strega in possesso della bottiglia si prese la mia borsa. Eravamo al Foro Imperiale e lei fu generosa, mi diede anche il suo familiare, il mio Schatzi. Lui resterà con me. Mi aspetta a casa. Tu avrai la bottiglia.
Ute batté un pugno sulla scrivania: − E io che me ne faccio?
La docente le sorrise e le indicò le sagome accucciate in fondo alla gradinata: − Posso solo dirti che è come avere una pistola carica. Quando lo Spirito Lupo non ti serve, puoi tenere il tappo chiuso e non accadrà nulla.
Ute ritirò la mano dalla cattedra: − Ah, sì?
Hilda Stein ridacchiò: − Come credi sia arrivata alla libera docenza? Ho avuto concorrenti che fanno sembrare quel Demone Lupo un gattino appena nato.
Ute annuì: − Però l’ha lasciata nel museo.
Hilda Stein le rivolse uno sguardo triste: − Sì, a un certo punto, tutto quel potere ti prosciuga. Volevo lasciarla lì, ma poi, ho avuto il presentimento che mi sarebbe servita ancora una volta, così l’ho presa.
Ute fece per richiudere il tappo: − La ringrazio, ora andrei.
La docente la fermò con un gesto: − Un ultimo favore. Provala, dammi la pace, avvicinati.
Ute si chinò, annuì alle parole della docente e lo sguardo le si illuminò di gioia maligna.
Guardò il gruppo accucciato: il branco e poi passò alla figuretta di metallo che aveva attaccata al palmo, e capì che faceva parte di lei come un dito della mano; si rivolse alle figure e sussurrò: − Attaccate, sbranate, mangiate. E poi tornate qui −. Scosse la bottiglia e uscì dall’aula con un sorriso maligno.
***
Ute attraversò la strada e attese l’ultimo tram; la figuretta a forma di lupo si staccò dalla sua mano e lei la rimise nella bottiglia; il liquido era diventato color vino e il vetro vibrava e il piccolo lupo vorticava su se stesso.
Quando sentì avvicinarsi il tram, rimise la bottiglia nella borsa, maneggiandola con la cautela riservata alle armi.
Alle sue spalle, sentì i passi degli studenti e una ragazza dire al compagno di corso: − Non capisco cos’abbia combinato la Stein. C’era la sua roba, ma non lei e poi, che orrore quelle ossa ammuffite vicino alla sua sedia.
Lui ribatté: − Già, ed erano mezze mangiucchiate da qualche cane.
La ragazza sospirò: − Parecchi, direi. Io faccio il cambio di corso.
 
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view post Posted on 28/5/2021, 06:43
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CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 26/5/2021, 08:02) 
Allora... racconto completato e riletto.

A furia di tagliare sono a quota 12K e potrei aggiungere qualche scena qui e lì per evitare che sembri che accada tutto troppo in fretta.

Ditemi, rileggo nella (vana) speranza di eliminare qualche errore di battitura o prolungate il tempo e magari provo ad appiccicarci postuma qualche scena?

Dato che nessuno ha dimostrato interesse effettivo per la proroga, non la effettuerem0. La consegna resta per l'ora e il giorno stabilito
 
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L'enigma del lupo
di Nazareno Marzetti

«Il paziente è sveglio dottore» disse una voce sopra di lui. Rodolfo cercò di distinguere qualcosa nella foschia che gli appannava gli occhi.
«Ausilia, aumenta a 4cc» disse un’altra voce, questa volta maschile. Conosceva quel soffitto: lo aveva fissato a lungo durante le lezioni più noiose. Una figura entrò nel suo campo visivo. Riconobbe il professor Marinelli un attimo prima che la vista si sfuocasse di nuovo. Provò a dire qualcosa, ma la voce non rispose. Non riusciva a muoversi, tutto il corpo era bloccato. Però sentiva. «Bene» disse la prima voce. «È di nuovo incosciente.»
“No” voleva urlare “Sono sveglio! Cosa volete farmi?”
«Cominciamo dalle braccia» disse il professore.
Cominciarono a tagliare. Sentiva chiaramente la sensazione della lama che incideva la pelle, che tagliava i tendini con cura e il muscolo. Fortunatamente non sentiva il dolore, ma voleva urlare ugualmente. “Smettetela! Professore, la prego! Venanzio salvami!” ma non riusciva a urlare.
«Qual’è la situazione dell’altro paziente?» chiese il professore.
“L’altro paziente?” Alcuni ricordi di risvegliarono nella mente di Rodolfo. C’era anche suo fratello.
«Addormentato e stabile.»
«Bene.»
Quando segarono l’osso la vibrazione gli frullò il cervello, poi iniziarono a collegare un braccio meccanico. La protesi. L’avevano progettata lui e suo fratello. A dirla tutta era stato Venanzio a fare tutto il lavoro. Possibile che fosse quella protesi? Avrebbe voluto vederla ma poteva solo fissare il soffitto sopra di lui e le facce che ogni tanto passavano nel suo campo visivo.
Dopo quelle che parvero - e forse erano - interminabili ore, ciascuno dei suoi arti era stato sostituito da una protesi. Il professore passò alla testa. L’ultima parte dell’operazione: l’interfaccia per controllare gli arti. Con una sega venne delicatamente aperta la calotta cranica. Per qualche minuto non sentì più niente, tranne un sapore di mandorla.
«Interfaccia collegata» disse la voce femminile.
«Ausilia, attiva il protocollo di inizializzazione.»
Le sue gambe si mossero, un’articolazione alla volta. Poi le sue braccia.
«Bene, richiudiamo!»
“Basta, smettetela” continuava a ripetere senza che potesse fare niente. “Risparmiate Venanzio.”
“È questo che vuoi?” la nuova voce veniva da qualche parte nella sua testa.
“Chi sei?”
“Sono il lupo”
«Signore, c’è un problema» disse una voce maschile, credette di riconoscerla.
«Continua tu» disse il professore. Smettendo di ricucire il cuoio capelluto. «Che succede.»
«Un virus è entrato nel sistema.»
“Un virus?”
“Mentalità limitate!” rispose il lupo “Io sono il lupo primordiale, il padre di ogni lupo, marito e fratello della luna stessa.”
«Eliminatelo subito!» ordinò il professore.
“Puoi aiutarmi? Puoi salvare Venanzio?”
“Sì.”
“Fallo. Ti prego, fallo.”
Il suo braccio scattò afferrano il polso dell’uomo che stava completando la sutura sulla fronte. Questo urlò di dolore. Si buttò giù dal lettino e si mosse a quattro zampe colpendo e scalciando tutti. Il lupo aveva il controllo dei suoi arti, ma lui non aveva il controllo sul resto del corpo.
«Fermatelo!» urlò il professore, afferrando il lettino di Venanzio e portandolo via. Il lupo continuò a combattere. “Devi fermarlo” gli disse Rodolfo, ma il lupo non lo ascoltò. Continuò a colpire e graffiare gli infermieri che scappavano e le due guardie di sicurezza che cercarono di placcarlo. Si fermò solo quando non c’era più nessuno in piedi nella stanza.
Sporco del sangue degli uomini della sicurezza e degli infermieri, cercò di fare un po’ di chiarezza nella sua mente. L’effetto dell’anestetico era quasi del tutto passato, e riusciva a controllare il tronco quel tanto che basta per reggersi in piedi. Uscì in corridoio, ma non c’era traccia di suo fratello. L’allarme suonava.
“Avresti dovuto fermarlo!”
“Ti ho liberato” rispose il lupo nella sua mente.
Rodolfo non riusciva ancora a muoversi bene. Gli unici movimenti erano quelli che gli permetteva il lupo con le nuove braccia e nuove gambe.
“Dei liberare Venanzio. Dobbiamo trovarlo.”
“Bene, cerchiamolo.”
“Credi di riuscire a fiutarlo?” chiese al lupo.
“Con il tuo naso? Non essere ridicolo!”
“Che cosa facciamo?” si chiese. Non poteva restare lì: presto sarebbe arrivata la polizia. Valutò di arrendersi e spiegare quello che era accaduto, ma aveva ucciso degli uomini e dubitava gli avrebbero creduto. Scappò.
Attraversò in fretta corridoi della facoltà di medicina di Ancona, illuminati solo dalle luci dell’allarme. Deserti, parevano familiari e alieni allo stesso tempo. Corse verso l’uscita di sicurezza più vicina. Era bloccata da una catena con lucchetto. La ruppe con una mano e uscì. Due passi e si trovò immerso nei boschi che separavano il polo universitario torrette dal quartiere posatora.
Non avendo controllo sul busto, corse a quattro zampe, completamente nudo, finché i suoni delle sirene non furono inghiottiti dai sottili rumori del bosco. Solo a quel punto si rialzò. La testa prese a pulsare e per un attimo temette di perdere l’equilibrio. Iniziò a camminare attraverso il bosco. Un bosco fitto e abbandonato a se stesso, ma in qualche modo, ora che il professore li aveva traditi, si sentiva più al sicuro lì che nelle strade della città.
Perché il professore li aveva traditi? L’ultima cosa che ricordava: lui e suo fratello lavoravano sulle protesi che stavano sviluppando per la tesi. Protesi che ora sostituivano i suoi arti. Il professor Marinelli era il loro relatore. Poi cosa era cambiato? Perché il professore si era trasformato nel loro aguzzino? Era stato lui a finanziarli quando i genitori sono morti e non avevano più modo di pagarsi gli studi. Possibile che fosse quello il piano fin dall’inizio? Voleva solo un paio di soldati cibernetici da vendere allo stato pontificio? O voleva una nuova serie di protesi e loro erano il campione omaggio?

Arrivò in città troppo presto: i rimasugli di una strada asfaltata inghiottita dalla natura lo condusse fino al forte. Da quella struttura antica si poteva ammirare il panorama del porto di Ancona, godere di epiche battaglie combattute da guerrieri olografici e gustare la migliore pizza della città. Niente di tutto questo alla sua portata prima e ancor meno ora che era diventato un cyborg.
Però da lì sapeva come raggiungere la casa dove viveva Giulia. Doveva solo scendere lungo la via. Camminava rasente i muri, sfruttando le ombre create dalle troppe piccole luci messe un po’ a caso sulle vie che risalivano ai primi anni del post guerra.
Strappò un lenzuolo steso ad asciugare, ne ricavò una benda per la testa e vi pulì il sangue. Rubò un paio di pantaloni e una felpa di due taglie più grande e iniziò a camminare per le strade semideserte. Nessuno parve far caso a un cyborg dall’aspetto di un tossico a quell’ora di notte.
La piazza Ugo Bassi non era mai vuota, neppure a tarda di notte. Vi era sempre qualcuno che aspettava il bus o cincischiava nel cabinotto ascoltando la musica nelle orecchie. Qualcuno sembrava semplicemente in attesa. Rodolfo riconobbe uno di quelli che gli aveva venduto la droga. Gli fece un rapido cenno che no, non ne aveva bisogno e l’uomo finse semplicemente di non averlo visto. Quando il bus 1/4 si fermò salì e si sedette in fondo, vicino all’uscita. Non aveva con sé né un biglietto né i soldi per comprarne uno, ma non lo preoccupava: non era la prima volta che usava i mezzi pubblici senza biglietto e sapeva come eludere i controlli.
Il paesaggio verso il quartiere torrette scivolò placido. Rodolfo si concesse di rilassarsi fissando la strada di palazzine antiche e nuove, che si alternavano sotto la luce fredda dei lampioni.

Gli appartamenti sopra il supermercato in zona tavernelle avevano la comodità di avere gli ampi e irregolari corridoi all’aperto. Chiunque poteva aggirarsi e c’erano anfratti per nascondersi un po’ ovunque. Sentì Giulia salire le scale ridendo con le amiche. Come sperava, aveva fatto tardi pure quella sera. Aspettò che fosse sola, poi le si parò davanti mettendole una mano alla bocca e facendole cenno di restare in silenzio con l’altra. Tolse la mano solo quando lesse nel suo sguardo che lo aveva riconosciuto.
«Rodolfo!» disse. «Cosa ti è successo?»
«Ho bisogno di aiuto, sono in un grosso guaio. Fammi entrare, e ti spiego.»

«Bene, ho connesso il sistema… Quindi questi li avete progettati voi?» gli chiese l’amica, ammirando gli arti robotici.
«Sì. Com’è la situazione?»
«C’era la password di default. Cosa devo cercare?»
«Ci dovrebbe essere un dispositivo per la sottomissione o qualcosa del genere» rispose guardando il monitor della ragazza, anche se ci capiva veramente poco.
«Credo che sia questo» rispose lei indicando un blocco giallo sullo schermo. «È qualcosa di integrato. Non posso disabilitarlo senza renderti paraplegico. Però è strano: se il controllo è attivo come mai non si limitano a riprenderti?» lo fissò negli occhi. «Ti sei dimenticato di dirmi qualcosa?»
“Non dirle di me!” ripetè il lupo nella sua mente.
Il ragazzo scosse la testa, poi cedette: «Il lupo. È stato lui a liberarmi.»
“Ora dovrò ucciderla!”
“No!”
«Il lupo? Ora capisco. Ne ho sentito parlare. Infetta i soldati cyborg e li fa impazzire. Più tempo rimane nella tua testa e più difficile diventa controllarlo.»
«Ma senza di lui a controllarmi sarà lo stato pontificio a controllarmi!»
«In effetti hai ragione. Cosa vuoi fare?»
«Voglio salvare Venanzio!»
«Non sarà facile. Prima dobbiamo trovarlo e poi tu… e il lupo… Be’, immagino ucciderete tutto quello che vi si piazzerà davanti.» Lo sguardo della ragazza si fece grave. «Ascolta, ti aiuterò a trovare tuo fratello, ma poi torna da me. Voglio eliminare il lupo.»
Un braccio scattò, ma Rodolfo riuscì a bloccarlo a metà del suo tragitto verso il collo della ragazza. «Ti do un paio di giorni, poi sparerò a vista, chiaro?»

Uno dei due giorni concessi da Giulia, Rodolfo lo passò a dormire mentre l’amica cercava dove era tenuto Venanzio. Il lupo rimase in silenzio per tutto il giorno, anche lui sonnecchiando. Il pomeriggio inoltrato Giulia aveva scoperto che avevano predisposto una sala operatoria nella sezione cybioingegneria per quella notte.
Attesero che, con la sera, la facoltà di ingegneria si svuotasse, poi entrarono nel complesso di edifici. Giulia guidò l’amico ad una porta di sicurezza della sezione di matematica. «È difettosa» gli spiegò, giochicchiando un po’ con la maniglia «L’allarme non è collegato ma non lo hanno mai riparato.» Sotto una rapida serie di leggere spinte e colpetti, la porta si aprì.
«Non so se voglio sapere come fai a saperlo.»
«Lo uso quando sono in ritardo a lezione» spiegò lei.
«È meglio che da qui prosegua da solo.»
«Sì. Ti aspetto domani mattina per rimuovere il lupo.»
“Non avresti dovuto dirle di me!” sbottò il lupo, mentre Rodolfo entrava. “Chi credi stia evitando che il professore ti controlli?”
“Be’, non è che mi vada di essere controllato neanche da te.”
“Ti sto forse controllando?”
“Hai ucciso quelle…” entrambi si bloccarono.
“C’è qualcuno!”
Il cyborg si acquattò vicino a ridosso dell’angolo tra due corridoi e, appena la guardia di sicurezza fu in vista, saltò e le strappò la carotide con un solo colpo.
«Il professore aveva ragione» disse una voce. «Sei pericoloso!»
«Venanzio?» esclamò il cyborg. Notò i riflessi metallici alla luce che filtrava dalle finestre. «Ma… doveva farti l’operazione stanotte.»
«Era per attirarti qui. Non eravamo sicuri funzionasse.»
«Non capisco.»
«Il professore mi ha offerto un modo per fermarti, per eliminare il lupo» spiegò Venanzio avvicinandosi lentamente, studiandolo.
«È stato il professore a ridurmi così!»
«Lo so. Volevo ammazzarlo per questo, ma poi non sarebbe cambiato molto. Tu saresti rimasto in balia del lupo e ti avrebbero ucciso» quando arrivò a due passi, deviò e iniziò a girargli intorno. Rodolfo iniziò a ruotare intorno a sua volta, studiandolo. «Ho stretto un accordo: mi avrebbero dato modo di liberarti del lupo se avessi accettato di diventare un soldato.»
«Così avranno vinto!» esclama Rodolfo, partendo all’attacco.
«No» rispose Venanzio schivando e cercando invano di colpire il fratello appena passato. «Un soldato volente è meglio di due soldati costretti!» Rodolfo si volta e si lancia sull’altro, ma questo riesce a bloccargli i polsi. «Tu saresti stato libero.»
«Libero di fare cosa?» gli ringhia contro. «Sono un cyborg. La mia vita è finita!» Gli da un calcio sul ginocchio e riesce a fargli perdere l’equilibrio per quella frazione di secondo necessaria a rovesciare la presa.
«Almeno non andresti in guerra.»
«E ci andresti tu al posto mio?» gli chiede.
«Sarebbe la soluzione migliore» risponde, cercando di allungare la mano. Solo allora Rodolfo notò il dischetto di plastica che aveva nel palmo. Scattò di lato, Venanzio si liberò.
«C’è l’antivirus?» chiese accennando al dischetto. Avevano ripreso a girarsi intorno.
«Mi basterà avvicinarlo alla tua nuca e tutto sarà finito.»
«Provaci» gli ringhiò contro e scattò. Venanzio scartò di lato ma questa volta venne afferrato e caddero entrambi a terra. Ruzzolarono cercando ciascuno di trovare una presa forte sull’altro. Rodolfo che non mollava il polso di Venanzio e questo che non mollava il dischetto.
Si arrestarono quando furono a ridosso di una spessa colonna dello stanzone. Un colpo ben assestato fece cadere dalla mano il disco di plastica e un attimo dopo Rodolfo lo distrusse.
«Cosa hai fatto?» sbottò il fratello.
«Ho cambiato le carte in tavola» gli rispose Rodolfo sorridendo. «Ora non puoi più eliminare il lupo!» aggiunse trasformando il sorriso in un ghigno.
«Io volevo solo salvarti!»
«Anche io volevo salvarti» rispose. «E ora credo che nessuno possa più salvare nessuno.»
«Cosa facciamo?» entrambi avevano perso interesse nel combattimento e si limitavano a mantenere le prese.
«Lanciamo una monetina» gli propose Rodolfo. «La mia nuca contro la tua nuca. Il lupo contro l’antivirus. Se vince l’antivirus verrò con te in guerra.»
«Se vince il lupo scapperò con te. In entrambi i casi abbiamo perso» completò Venanzio.
«Abbiamo già perso» lo corresse. «In entrambi i casi restiamo uniti.»
 
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view post Posted on 29/5/2021, 13:29
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Lupita screams




Stacco lo spinotto dalla presa sul polso; una scossa mi pizzica la pelle. Erano mesi che non mi collegavo a una macchina, non mi mancava.
Mi sollevo dal lettino e poggio i piedi sul pavimento gelido della sala operatoria.
Emily spegne la lampada scialitica e la ripiega. Restiamo al buio, con solo la luce del monitor sulla sua scrivania e le spie rosse dei macchinari.
Prende un panno dalla sedia di fronte a me e si asciuga il sudore dalla testa rasata.
«Dovevi scollegarti così presto dallo scanner? Sarebbe meglio continuare a monitorarti per un po’.»
La zittisco con un gesto seccato della mano. «Quali sono i risultati?»
«Posso fare ancora altre scansioni, vedere se hai cambiamenti che potrebbero essere sfuggiti a un primo esame e poi—»
«I risultati.» Stringo il bordo del lettino; i polpastrelli sfregano contro l’imbottitura logora. Non ho tempo.
Emily si gratta la nuca e scuote la testa. «Hai nel corpo le nano-macchine; sono già moltiplicate e in simbiosi con ogni apparato, e il tumore è sparito.»
Allora Carmen lo ha fatto davvero…
Emily mi poggia una mano sulla spalla; la pelle della sua protesi è fredda. «Ethan, se tua moglie ti ha dato la sua ricerca è perché voleva proteggerti. Vi avrebbero uccisi entrambi comunque.»
L’hanno torturata, non solo uccisa.
Tiro un lungo sospiro. «Perché hanno eliminato solo lei?»
«Forse il team di ricerca di Carmen l’ha tradita e ha venduto le sue conoscenze al miglior offerente, un cartello della droga. Lei ha cercato di portare via il prototipo dal laboratorio per evitarne l’impiego militare, e ha deciso di darlo a te. Vedilo come un ultimo gesto d’amore.»
Lo stomaco mi si chiude. Non c’entra nulla l’altruismo. Lei è morta da sola, urlando il mio nome. E io non ero lì. Non ho bisogno di prove per saperlo.
Emily si siede e tira fuori dalla tasca dei jeans un pacchetto di Winston. «Cosa ti ha fatto pensare di avere le nano-macchine nel corpo?»
Chiudo gli occhi e mi massaggio la fronte. «Ieri sera un sicario mi ha pugnalato sul collo. Qui, sotto l’orecchio.» Punto l’indice dove ci sarebbe dovuta essere la ferita. «Avevo lavorato in fabbrica fino a tardi e mi stava aspettando sulla strada del ritorno. Ricordo di aver perso moltissimo sangue mentre barcollavo in cerca di aiuto. Sono svenuto e mi sono risvegliato senza un graffio. All’inizio pensavo di essermi immaginato tutto, di essere stato drogato. Poi ho pensato a Carmen e alla ricerca di cui mi parlava, a come nelle ultime settimane dopo la sua morte il tumore non mi togliesse più le forze.»
«Pugnalato, dici. Perché non lo hai detto subito?»
«Ero sotto shock. Volevo sapere cosa mi stava succedendo. E poi sei stata tu a chiamarmi.»
«Le ho promesso di tenerti d’occhio.» Emily sostiene il mio sguardo. «Comunque, se hanno usato un coltello è per far passare l’omicidio per una collusione con la criminalità dei bassi fondi.»
«Sentire la lama entrare nella carne e tirare allargando lo squarcio è stato diverso da come lo immaginavo.»
Emily fissa il pavimento e si accarezza il dorso della mano con le dita. La punta della sigaretta oscilla nel buio.
«Il passato è passato. Concentriamoci sulle nostre nuove vite. Lasceremo la città, te l’ho detto. Non pensarci.»
Non pensarci. E Carmen? Che dolore ha provato lei? Mentre la smembravano viva? No. Una cosa simile non può essere dimenticata. Non deve.
Emily lancia un’occhiata al monitor. «Quando pensi che Carmen può averti dato le nano-macchine?»
«Non lo so. Non so nulla di come funzionano queste cose. L’ultima volta che l’ho vista eravamo nello zoo vicino al lago. Era caduta e le si era staccata un’unghia. Le ho detto di cercare un bagno per pulire la ferita, e lei mi ha detto che non aveva tempo, che aveva un impegno lavorativo. E poi ha aggiunto una cosa strana…»
Emily si sporge in avanti. «Cosa?»
«Eravamo davanti al recinto dei lupi, li guardava trasognata. E ha detto che—»
I vetri della finestra si spaccano. Emily cade per terra su un fianco. Uno schizzo umido mi arriva sul braccio: è sangue.
Un cecchino!
Mi butto sotto il lettino.
Come hanno fatto a trovarci così presto? Non sapevano che ero vivo.
«Emily! Emily!»
Un rivolo di sangue le cola dalla tempia destra. Non aveva protesi craniche. Probabilmente è morta.
Un altro rumore di vetri rotti. Un cilindro argentato rotola sul pavimento rilasciando fumo bianco. Un lacrimogeno. Stanno per entrare. Mi vogliono vivo.
Striscio verso la porta. Ogni respiro mi brucia i bronchi. Cristo, quanto fa male.
Mi sollevo quanto basta per arrivare alla maniglia. Le mie dita tremano.
L’anta si apre di colpo e mi sbatte contro il naso. Cado di schiena. Il sangue caldo mi cola sulle labbra.
La luce di una torcia si ferma sul mio viso, è sulla canna di un fucile tenuto da un uomo con una maschera antigas e un elmetto con una visiera nera.
Gli occhi non mi bruciano più, riesco a vederlo attraverso il fumo.
Spingo sui gomiti per alzarmi. L’uomo mi ributta a terra con un calcio sul viso. Tossisco e sputo un grumo di bava.
Un picchiettare veloce e metallico si avvicina da oltre la porta. Due ragni meccanici passano sotto le gambe del sicario e si arrampicano sul mio corpo. Uno dei droni si avvinghia al mio polso sinistro. Do un calcio al secondo. Una scarica elettrica mi attraversa il corpo, mi si serra la mandibola. È come se mi stessero infilando degli spilli in ogni articolazione.
Il secondo ragno arriva al mio polso destro e lo avvolge tra le zampe. La scarica finisce.
Devo impedirgli di unirsi. Allargo le braccia con tutta la forza che ho; il campo magnetico tra i due droni le riavvicina. Le mie spalle scricchiolano. I miei polsi sbattono uno contro l’altro. Sono bloccato.
L’uomo si porta un dito sul casco. «Bersaglio sotto custodia. Abbandonare le posizioni di tiro.»
Mi afferra per le braccia, mi solleva e mi sbatte contro il muro.
Sto per essere rapito e ucciso? Sì, mi uccideranno sicuramente. Prenderanno anche la ricerca di Carmen.
«Porto il bersaglio all’ingresso.»
Il mio corpo verrà trovato in una discarica. Un ammasso di pezzi umani carbonizzati. Uno dei tanti masticati e sputati dalla città.
Stringo i pugni. Non possiamo essere dimenticati così.
Le mie dita entrano nella carne dei palmi, gocce di sangue scivolano fino alle mie nocche. Siete dei maiali.
«Andiamo.» L’uomo mi strattona via dalla parete e mi spinge verso la porta.
No!
Mi giro di colpo e do una gomitata sul casco dell’uomo. La scarica elettrica dei droni attraversa di nuovo il mio corpo.
Non importa.
Tendo un braccio e tiro con l’altro. La mano scivola sotto le zampe del ragno, le nocche si piegano una sull’altra. È libera.
L’uomo è a terra, a più di tre metri da me, accanto al corpo di Emily. Come ha fatto ad arrivare fin lì?
Un’energia simile a un’onda mi attraversa il corpo. L’altro ragno apre le zampe e cade per terra. Si è disattivato da solo?
Mi avvicino all’uscita. No, potrebbe sapere qualcosa. Devo chiedergli come hanno fatto a trovarmi o non mi lasceranno mai in pace. Ma potrebbero esserci altri cecchini.
Trascino l’uomo sotto il lettino e mi accovaccio su di lui. Gli tengo ferme le braccia con le ginocchia. Afferro il bordo del casco dietro la nuca. Come cazzo si toglie questo affare?
«Hey!» Busso sul casco. «Chi ti ha mandato? Come mi avete trovato?! Rispondi!»
Sul lato destro il casco è infossato come se fosse stato colpito da una mazza.
Mi tocco il gomito. Sono stato io…
Apro le mani. Il sangue sui palmi si ritrae verso le ferite, striscia come se fosse vivo. I tagli si richiudono.
Sono state le nano-macchine di Carmen, mi hanno dato questa forza. Lei e il suo team erano riusciti a fare questo?
Stringo le dita sulla crepa nel casco e tiro. La metà superiore si scoperchia mostrando gli occhi chiusi dell’uomo.
Gli sollevo una palpebra col pollice. Merda, è svenuto. Dovrò trascinarlo via per interrogarlo dopo. Ma ci saranno altri ad aspettarlo fuori. Anzi, staranno già salendo la palazzina e—
Le mie dita vibrano, è come se qualcosa scorresse al loro interno. Le mie unghie si fondono con i polpastrelli, si allungano in un’escrescenza composta da filamenti color mercurio.
È un sogno.
L’escrescenza striscia sul viso dell’uomo, si avvicina al suo occhio ed entra sotto la palpebra.
La testa mi gira. Strizzo gli occhi.
Sono in piedi. Fa caldo e sto sudando. Ho in mano un fucile. Sfondo una porta con un calcio e punto la canna contro il viso di un uomo. Quell’uomo sono io.
I filamenti escono dall’occhio del mercenario. Mi sposto dal suo corpo.
Che cazzo è stato? Una connessione neurale? È impossibile. Non si può simulare la coscienza senza un supercomputer.
Riprendo fiato.
Carmen, mi hai dato questo, a un povero stronzo che lavora in fabbrica. Non è razionale. Non è da te. Non puoi essere morta per questo.
E mentre ti dilaniavano, cosa hai provato? Hai urlato il mio nome. E io non ero lì.
Passi veloci vengono dalle scale.
Emily, perché mi hai dovuto dire della tortura? Perché non mi hai detto che era morta e basta? Mi asciugo le lacrime col dorso della mano.
Volevi che stessi male, vero? Mi hai detto di non pensare al passato ma in realtà volevi che ricordassi il suo dolore. Il dolore della tua amica che è stata massacrata. Ora posso. Posso rivivere gli ultimi minuti della tua vita, Carmen. Mi riprenderò quel dolore. Mi appartiene.
Corro verso la porta, afferro la mia giacca dall’appendiabiti e la indosso al volo. Dove sono le scarpe? Non importa.
Emily ha detto che quando ti uccidono tengono la testa per cercare informazioni. Quella di Carmen devono averla ancora.
Esco nel corridoio. Un altro uomo viene dalla direzione opposta con lo stesso fucile e divisa scura del primo.
Scatto verso di lui. Il suo bicipite si tende, l’avambraccio si flette, l’indice si piega sul grilletto. Sta per premerlo, ancora un istante…
Sposto il peso del corpo a sinistra. Lo sparo rimbomba nel corridoio; rumori di vetri rotti alle mie spalle.
L’uomo indietreggia e ripunta il fucile su di me.
Sei lento.
Mi lancio in una scivolata. Il proiettile mi passa sopra la testa. Colpisco la sua gamba con la pianta del piede e la sua tibia si spezza. L’uomo cade per terra con un grido. Lo afferro per il casco e gli sbatto la testa sul pavimento; le mattonelle si crepano. La vibrazione del colpo mi sale fino alle spalle.
Il mio cuore balla nel petto. Non ho mai corso così veloce in vita mia. È stato bellissimo.
Va bene, devo calmarmi. Lui saprà qualcosa.
Spacco la visiera con un pugno e infilo i filamenti nell’occhio dell’uomo.
Sono seduto davanti a un tavolo di plastica, poggiato contro la parete di legno rosso di un corridoio, con appese chitarre, giacche borchiate e foto di cantanti rock. È un locale a tema anni ottanta.
Afferro il mezzo hamburger davanti a me; le mie dita tozze fanno scrocchiare la mollica tostata. Do un morso. Il sapore di carne alla griglia e cipolle fritte mi riempie la bocca. Un odore di tabasco si solleva dai nachos a fianco.
Un uomo sulla sessantina si siede davanti a me. Si gratta una delle guance cadenti come quelle di un bulldog e mi fissa con un’espressione stanca sotto la montatura sottile degli occhiali. «Tu e Ronald andrete a prelevare il soggetto. Caricatelo sul furgone e fermatevi qui. Vi aspetto nel locale. Cercate di arrivare per le dieci di sera e lo scarichiamo nel laboratorio.»
«D’accordo, Nicolas.»
«Il capo lo vuole vivo. È fondamentale.» L’uomo spinge con l’indice gli occhiali sul naso unto. «Chiaro?»
«Chiaro.»
C’è una canzone che viene dal fondo della sala, esce da un jukebox con luci gialle che ne seguono i margini ad arco.

The river's got your forehead darling
It spies your city scene
That city shines when you're away
It can't hear Lupita scream


La conosco: Lupita screams, è una canzone dei Gun Club. Quando la mettevo in macchina, Carmen diceva sempre che voleva uscire dal finestrino sul tettuccio e urlare mentre sfrecciavamo nel deserto, ma alla fine non lo faceva mai.
Mi alzo ed esco dal locale. Salgo su una moto nera da strada. L’insegna appare nel mio campo visivo. Blocco il ricordo in quell’istante. L’azzurro dei cavi al neon forma la scritta Barry’s New Paradise.
Le luci dell’insegna sfumano nel buio del corridoio. Sono di nuovo me stesso. Il soldato è ancora privo di sensi.
Cammino verso la scala antiincendio. Infilo la mano nella tasca della giacca e prendo il telefono. Sono le otto e mezza. Il navigatore dice che il locale non è lontano. Quell’uomo, Nicolas, deve sapere dov’è Carmen.
Spingo la sbarra rossa della porta. Lo schiaffo di aria umida mi sposta i capelli dalla fronte e mi gonfia il colletto della giacca. L’odore acido di qualche prodotto chimico mi riempie il naso e mi pizzica la gola.
La grata della scala vibra sotto i miei passi. Stringo le mani sulla ringhiera e mi sporgo. Nel vicolo sotto, i Los Zetas spaccano bottiglie e sparano a salve. Stanno di nuovo festeggiando, forse è un altro matrimonio di qualche pezzo grosso.
Alcuni sono accalcati davanti all’ingresso di un locale notturno, escono allegri dopo essersi fatti qualche pista nel seminterrato.
Inizio a scendere. Getti di fumo bianco escono dalle giunture dei condotti che si diramano tra i tetti dei palazzi, innervano i bassifondi fino a convergere nelle fabbriche monolitiche ai margini della città.
La vecchia zona industriale dove vive Emily è proprio un incubo. L’odore di quel fumo rende l’aria irrespirabile. Chissà quale merda industriale stanno scaricando su questi reietti. Anche se la conoscevo poco mi dispiace per quella povera ragazza.
Ma io sto bene. Grazie a Carmen non posso più essere ferito.
Sirene in lontananza. Forse mi conviene scendere da un altro palazzo.
Mi fermo sul pianerottolo intermedio e poggio le mani sul muro di mattoni costeggiato dalla scala. Sale per almeno cinque metri prima di finire nel cornicione del tetto.
Metto un piede sul muro. Non scivola. Aderisce alla parete bagnata come una calamita. Stacco il piede. Posso salirci. Lo sento. Lo so.
Faccio due passi indietro per avere più slancio.
Prendo un respiro.
Scatto.
All’impatto la mia pianta fa uno schiocco contro il cemento. Sollevo l’altro piede e facendo leva col primo. Gli addominali e i muscoli del collo si contraggono. Corro sul muro. Il sangue passa dal viso alla nuca. Ancora un po’!
Inarco il busto in avanti e afferro il cornicione. Mi tiro su.
Ci sono riuscito. Ansimo. È stato facile. Mi siedo e riprendo fiato. «È stato facile…»
La distribuzione del sangue torna normale e il mio viso si riscalda, diventa pesante.
Mi alzo e mi avvicino al cornicione. Oltre il ponte sul fiume, i grattaceli del centro sembrano figure geometriche in un caleidoscopio, illuminano le nubi in cielo di un giallo cadaverico.
È strano. I palazzi sono diversi. È come se la città fosse meno ostile, come se potessi muovermi tra le sue strade e tetti senza la paura del dolore. Potrei venire colpito dritto nella trachea da un palo scheggiato e riuscirei a rialzarmi comunque.
La metro è dall’altro lato della strada.
Salgo su un trio orizzontale di tubature arrugginite che collegano questo palazzo a quello di fronte. L’acciaio ruvido mi riscalda i piedi.
Fino a ieri avrei avuto paura di tagliarmi camminando scalzo in questo modo, ora mi sembra naturale come respirare.
La lama di un machete cala sulla caviglia amputando il piede, un brandello di carne resta attaccato alla gamba.
Scrollo la testa per scacciare l’immagine.
Carmen.
Ti prego, se davvero le hanno fatto quelle cose fa che l’abbiano drogata.
Stringo i pugni e corro. Il mio battito accelera. Mi sposto sulla tubatura a sinistra. Sulla strada, venti metri più giù, la luce rossa di una sirena segue un movimento circolare illuminando i graffiti sui muri diroccati.
Continuo a correre. Il vento freddo scosta la giacca lascandomi a petto nudo. Non perdo l’equilibrio, non ho vertigini. Sorrido.
Il machete cala di nuovo sul piede; la lama si spezza in mille schegge con un suono cristallino.
È incredibile. Vorrei condividere queste sensazioni con qualcuno.

***

Sono in anticipo di venti minuti, ma non importa. L’uomo che cerco dovrebbe essere già qui.
L’insegna al neon è identica al ricordo del sicario, ma le luci sono spente. Davanti non c’è nessuno.
Il mio indice e medio si fondono in un’escrescenza. La infilo nel citofono, nel punto da cui si diramano i cavi che seguono i margini della porta. Si apre.
Tre scalini mi portano in un atrio piccolo come uno sgabuzzino. Gli appendiabiti sono vuoti. Un portello di vetro copre il riquadro elettrico.
Scosto l’arcobaleno di tende a fili con perline che mi separa dal corridoio. Il locale è deserto e le luci sono spente, ne resta solo una in fondo, viene da quella che dovrebbe essere la cucina.
È vuota. Una pentola d’acqua bolle sull’alluminio incrostato dei fornelli. C’è un’altra porta dall’altra parte della sala. Dei lamenti provengono da lì. Stanno torturando qualcuno? Questo posto non è un semplice locale.
Mi accosto allo stipite e sporgo la testa.
Nella penombra della piccola stanza vibra la luce bianca di un televisore. Viene da dietro lo schienale di una poltrona. Una mano è poggiata sul bracciolo, forse è l’uomo che cerco.
Urto con il piede una scatoletta per hamburger rovesciata sulla moquette verdastra. Dalla carta umidiccia sale un puzzo di rancido. Altre sono ammassate lungo la parete, fanno la coda fino a un tavolino ricoperto di mozziconi e lattine di birra.
Avanzo di qualche altro passo. Sulla parete opposta, la luce si riflette su dei barattoli di vetro, fanno capolino da una credenza senza ante. Contengono un liquido scuro. Sarà qualche mistura chimica per produrre droga.
L’uomo solleva il braccio e si gratta la guancia cadente. Si sporge in avanti e ansima. È lui. È il maiale che ha dato l’ordine di rapirmi.
Il labbro inferiore gli trema. Ha i pantaloni calati e agita la mano destra come un martello pneumatico. Il porco si sta masturbando.
Ai suoi piedi c’è uno di quei barattoli di vetro. Il coperchio è rovesciato sulla moquette.
Un urlo viene dallo schermo. Trasmette il video di un uomo steso e legato su un lettino da obitorio che viene pugnalato sul torace.
Il muscolo del petto è esposto come in un animale macellato.
No, non lo stanno pugnalando.
Dove termina il rosso del muscolo, la pelle dell’uomo si solleva seguendo il movimento disinvolto del coltello.
Lo stanno scuoiando vivo. Cristo, ma—
Nicolas ansima più forte e infila la mano nel barattolo, tira fuori qualcosa di chiaro e molliccio. È un seno.
Porto la mano alla bocca. Un reflusso acido mi si riversa sulla lingua. Le orecchie mi fischiano. Carmen, Carmen aiutami. Aiutatemi. Qualcuno.
Sbatto la schiena contro qualcosa di duro. Un suono di vetri rotti sul pavimento. Il vomito schizza tra le fessure delle mie dita.
«Chi è?!» Nicolas si alza e si volta. Il pene è eretto sopra lo scroto raggrinzito. Negli occhi ha la paura di un bambino. «Tu.»
Lascia cadere il seno. Il pezzo di carne si affloscia sulla moquette con il capezzolo scuro rivolto al soffitto.
Abbasso la mano gocciolante. Devo calmarmi.
Chiudo gli occhi. Inspiro e espiro a fondo.
Nicolas è ancora immobile.
Faccio un passo avanti. «Dimmi dove tenete Carmen.»
Lui barcolla all’indietro. «Se mi tocchi ti uccideranno. Non fare cose stupide.»
«Non mi importa di morire. Ti ho chiesto dov’è.»
«Va bene. Stai calmo.»
Nicolas afferra i jeans per la cintura. La pancia trasborda dal maglione a quadri. Solleva i pantaloni e chiude la zip. Porta su gli occhiali con l’indice. Ha il volto rilassato, mi sorride.
«Ethan, ragazzo mio, quello che ti è successo è stato terribile. Ti capisco, sai? Credi che non possa solo perché siamo nemici? Trovarsi in mezzo a questo massacro senza averne colpe. Mi ricordi me stesso quando ero solo un tassista e il cartello della mia zona mi chiese di fare loro un favore. Sai quanti tassisti vengono uccisi dai narcotrafficanti? Se rifiuti vieni fatto a pezzi, se accetti ti metti contro un cartello rivale e quindi devi guardarti le spalle per il resto della vita. Come un agnellino che bruca senza mai poter abbassare le orecchie.» Si siede sul bracciolo della poltrona. «Lo hai provato anche tu negli ultimi giorni, vero? Sono felice che per te sia stato così poco tempo. E quello che hai nel corpo, oh… una cosa troppo grande per una persona onesta e semplice come te, ragazzo mio. Tu sei stanco, Ethan, lo vedo. E lo sono anch’io»
«Se non mi dici dov’è Carmen, presto sarai molto più che stanco.»
«Il corpo di Carmen. Posso chiederti cosa vuoi farci, ragazzo?»
«Voglio sapere cosa le avete fatto. Voglio portarla via. Ho visto come ti diverti.» Indico il televisore. «Cancella i file di quelle torture.»
«L’ultima volta che hai visto tua moglie è stato allo zoo. Eravate felici. Non ti basta quel ricordo? Pensi che vedere il video ti farà stare meglio? Non siamo così diversi, dopotutto.»
Un brivido mi attraversa la schiena. Il porco mi spiava, e ora sta cercando di fottermi con questi giochetti retorici. Non voglio vedere il video, voglio viverlo.
«Sai, ci ho ripensato. Posso trovare questo laboratorio da solo. Mi basta scavare nel tuo cervello e poi ammazzarti.»
«Non sei un assassino, Ethan. Gli uomini che ho mandato sono ancora vivi, vero?»
Basta. Mi avvicino verso di lui.
«Il laboratorio si trova lì dietro, in cucina.» Indica alle mie spalle. «Serve questo telecomando per entrarci. Tieni.»
Mi lancia qualcosa; l’afferro al volo. È un cerchio di plastica grigia con un tasto al centro.
Gli faccio un cenno con la testa. «Vieni, stammi davanti.»
Nicolas obbedisce.
I cocci di vetro del barattolo scricchiolano sotto i nostri piedi. Non provo nessun dolore. È come se fossi fatto di marmo.
Il mio alluce urta qualcosa. È una mano.
Cristo. Quanta gente hanno ucciso queste bestie?
Mi inginocchio. La mano è piccola e ha le dita affusolate. L’unghia sull’indice manca.
È Carmen. L’hanno davvero fatta a pezzi.
Il mio battito accelera, mi sento bruciare. Dio, amore. Cristo, perché?
Nicolas sgrana gli occhi. «Che succede? Ethan?» Fa un passo indietro. «Ethan!»
Stringo le mani sul suo collo. Cadiamo a terra.
Sono sopra di lui. Spingo il ginocchio sulla sua pancia con tutto il peso.
Un verso acuto gli esce dalla bocca, come il rantolo di un malato terminale.
Ti odio. Voglio sentire tutto il tuo dolore!
Stringo più forte. La cartilagine scricchiola sotto i miei pollici. Un rivolo di saliva gli cola dall’angolo della bocca. I suoi occhi si girano sotto le palpebre.

***

Il lupo nella gabbia solleva la testa e mi fissa con le iridi gialle. Si lecca il muso sporco di sangue del topo che ha catturato.
Carmen è accanto a me, mi tiene la mano.
Il lupo fa dondolare la testa e inizia a camminare avanti e indietro, come uno psicotico in un manicomio.
Carmen lo guarda come se fosse in trance.
Sorride. «Visto? Non sono le prede che gli mancano, non sono gli stimoli forti della caccia, ma quelli nuovi. Impazziscono perché ripercorrono la stessa routine negli stessi tre metri quadri, per tutta la vita.»
Un altro lupo colpisce il topo con una zampa come se fosse ancora vivo.
«Riassaporano gli ultimi attimi di vita della preda, ci si aggrappano perché non hanno nulla per cui andare avanti.»
Mi guarda. Qualche capello biondo le finisce sugli occhi chiari. «Io non voglio che tu sia così. Ti darò la vita che meriti.»

***

Lascio la presa.
Nicolas respira ancora.
Mi ero dimenticato quelle parole.
Prendo la mano di Carmen, la porto alla bocca e bacio il dorso. Ora so cosa devo fare, amore. Cancellerò questo posto. Devo lasciare quel dolore.
Vado verso l’ingresso. Asciugo le lacrime e pulisco il naso contro la manica della giacca.
Spacco col gomito il portello del quadro elettrico ed estendo le mie dita al suo interno. Carico l’energia nel braccio. Come con il drone, l’impulso elettromagnetico fa spegnere la lampadina sul soffitto.
Esco fuori. L’intero quartiere è al buio. È finita.

***

Mi metto sul margine del tetto del grattacielo. Il bordo del cornicione preme contro la pianta dei piedi.
Il quartiere è costeggiato dalle luci della città come uno stagno nero.
Mi sporgo in avanti; i muscoli dei polpacci si contraggono, i tendini tirano sui talloni. Mi spingo fino al limite del baricentro.
Allargo le braccia. Il vento è così forte che sembra sostenere il mio corpo.
È proprio vero. «That city shines when you’re away. It can’t hear Lupita screams.»
Chiudo gli occhi e sorrido.

Edited by Legno Di Noce - 29/5/2021, 15:16
 
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view post Posted on 29/5/2021, 13:53
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Fantastico! Chi manca ancora?
 
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CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 29/5/2021, 14:53) 
Fantastico! Chi manca ancora?

Presente.
Sto cambiando i piani perché non so se hai letto qualcosa dei racconti ma io per fortuna sì, e non vorrei essere accusato di plagio XD
(per esempio con un tatuaggio di un lupo che rappresenta una setta di appartenenza )
 
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view post Posted on 29/5/2021, 18:18
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CITAZIONE (White Pretorian 2.0 @ 28/5/2021, 07:43) 
CITAZIONE (Nazareno Marzetti @ 26/5/2021, 08:02) 
Allora... racconto completato e riletto.

A furia di tagliare sono a quota 12K e potrei aggiungere qualche scena qui e lì per evitare che sembri che accada tutto troppo in fretta.

Ditemi, rileggo nella (vana) speranza di eliminare qualche errore di battitura o prolungate il tempo e magari provo ad appiccicarci postuma qualche scena?

Dato che nessuno ha dimostrato interesse effettivo per la proroga, non la effettuerem0. La consegna resta per l'ora e il giorno stabilito

Proroga proroga!
 
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Se non la chiede anche Romanelli, non vale.
 
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view post Posted on 30/5/2021, 18:56
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Gli Inferi

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Dispositivo cerebrale mobile
di truemet

Apro l’occhio destro. È dolorante. La palpebra si apre e chiude a scatti.
Una puzza di marcio mi invade le narici e mi da la nausea. Sono steso a terra in mezzo all’immondizia. Mi sollevo, e una fitta alla schiena mi avvisa che non sta bene.
Ho la mano unta, o almeno spero. E l’altra mano è… bionica! Alzo la manica della giacca. Tutto il braccio lo è. È stato… in guerra? No, l’incidente…
Sull’altra mano ho una ferita sul palmo, è ancora viva, il sangue sta colando sul polso. Dall’occhio sinistro non vedo nulla. Avvicino la mano umana e tocco con delicatezza. È freddo e duro come un pezzo di vetro. Picchetto un paio di volte. Ho un occhio finto! Perché non mi ricordo niente?
Cammino scavalcando sacchi dell’immondizia e rifiuti alla rinfusa. Sulla coscia sinistra ho un laccio cosciale con una fondina vuota. Vediamo cosa c'è nelle tasche: un pacchetto di fazzoletti, una piccola custodia di un apparecchio elettronico, vuota, e uno scontrino del bar Neuromante, delle sei e trentadue del 15/07/2121. Che giorno è oggi? Non ne ho idea.
Una signora di mezza età cammina verso di me. Mi avvicino. «Salve, signora. Sa dirmi che giorno è oggi?»
Mi sorride e annuisce. «Mercoledì 15 luglio.» Mi squadra da testa a piedi. «Ma, dico, si sente bene, signore?»
«A dire il vero no. Mi sa indicare la stazione di polizia più vicina?»
La mano della signora scatta sul petto. «Oddio! È stato rapinato?»
Le mostro la ferita sul palmo. «Sì, ma non sono stato hackerato...»
«Santo Cielo. Dovrebbe andare in ospedale, non alla polizia. Mi permetta di chiamarle un taxi.» Attiva il DCM e un fascio di luce proietta sopra la sua mano il desktop cerebrale. «Chiama ta—»
«No. Grazie ma non potrei pagare.»
Le sue labbra si rovesciano, scendendo verso il basso. «Ah… il DCM… Allora chiami un’ambulanza. Non dovrà pagare e saranno loro a chiamare la polizia quando vedranno che le manca il DCM.»
Forse sarebbe bastato il mio sorriso, ma mi avvicino alla signora e la bacio sulla fronte.
«Grazie, non ci avevo pensato. Non so dove ho la testa.» In tutti i sensi.
La signora avvicina la mano alla bocca. «Chiama Ambulanza.» Sul desktop appare il simbolo dell’ospedale e una scritta le chiede se vuole impostare la sua posizione come destinazione. «Sì.» Mi sorride. «Ecco fatto.»
«Grazie. È stata molto gentile ad aiutare uno sconosciuto. Uno sconosciuto che puzza come una discarica.»
Ride. «Con quella giacca, signore, si vede che è un brav’uomo che ha avuto una brutta giornata.» Si avvicina e abbassa la voce. «Non per farmi gli affari suoi ma, quanto l’ha pagata?»
Questa volta sono io a ridere. «Mi creda sulla parola, non mi ricordo.»

***

Sbadiglio. Sono alla stazione di polizia da ore. Senza il DCM mi annoio a morte.
L’agente Pit si siede alla scrivania. «Ecco fatto, Signor Kenny Blaze.»
Ecco come mi chiamo!
«Questo è il suo Dispositivo Cerebrale Mobile provvisorio», mi consegna un microchip grande almeno quattro volte quello standard. «Contiene i dati base collegati alla sua scheda, per gli altri dati dovrà attendere che le installino quello nuovo.»
«Non posso installarlo subito?» Fisso l’agente con occhi da cerbiatto, speriamo funzioni.
Ride. Non ha funzionato. «No, signor Blaze, ci vorranno due settimane.»
«Due settimane?» Spalanco l’occhio e allargo le braccia.
«Già.» Alza le spalle. «Bene, la sua denuncia contro ignoti è stata registrata, le faremo sapere quando scopriremo qualcosa.»
Certo, l’anno del mai e il mese del forse. «Grazie, agente Pit.»
Gli stringo la mano e mi incammino verso l’uscita. Non ricordo niente, ma almeno ho avuto indietro parte della mia vita.
Kenny Blaze. Sembra un nome di un cartone animato. D’accordo. Vediamo dove abito. Prendo il DCM e seleziono “abitazione”. Al 274 di Rico Street. E che lavoro faccio? «Seleziona occupazione». Addetto alla sicurezza informatica alla Gibson Software.
Se voglio ricordarmi qualcosa, devo capire di più sulla mia vita. Senza il mio DCM è tutto più complicato. Chi può avermelo rubato? Non vale niente se non è impiantato in me.
Prendo il DCM. «Chiama taxi.» Comincerò tornando a casa.

***

Il taxi si ferma al 274 di Rico Street. Ho la casa in un bel quartiere, una bella giacca, un braccio bionico che sembra di alto valore… ma ho solo diecimila dollari sul conto, diecimila esatti. Dovrò guardare sotto il materasso.
Appoggio il DCM alla maniglia della portiera. «Ventisei dollari. Pagamento effettuato con successo.» Il Led rosso diventa verde e la portiera si apre. «Grazie per aver viaggiato con noi, signor Blaze.» Prego.
Salgo gli scalini che portano all’ingresso. I tre piani saranno tutti miei? Avvicino il DCM al lettore. La porta con le decorazioni dorate si apre, lasciandomi accedere a una grande hall priva di mobilia. Il pavimento è lucido, come se avesse visto poche suole in vita sua. Lo specchio e il tavolino sono asettici, non c’è un soprammobile, un foglio di carta, un display, un connettore o un DCI. Ricordano le vecchie abitazioni di cento anni fa. Mi sposto nel soggiorno. Uno spazio così grande con solo un divano di pelle? Devo fare due chiacchiere con l’arredatore.
La cucina è perfettamente in ordine e pulita. Nessun alimento nelle ante e nel frigorifero. E di cosa mi nutro, di aria?
È inutile guardare nelle altre stanze, è chiaro che non vivo qui. Mi gratto il mento con la mano bionica. Esco di casa e mi siedo sui gradini. È tutto così nuovo, non ricordo niente. Non vivendo qui e possibile che questa zona non l’abbia neanche mai vista.
Non ricordo quel cartello luminoso a forma di cane con la scritta “Cyberdog” che appare e scompare. In un altro a forma di cono c’è scritto “Anticho Gelati italiano”. Il bar a fianco si chiama “Neuromante”. Cerco lo scontrino nelle tasche, sperando di non averlo buttato via. Eccolo. Bar Neuromante, sei e trentadue di questa mattina. Mi alzo in piedi e corro verso il bar.
La porta scorrevole si apre, mi lascia passare e si richiude alle mie spalle.
«Ciao, Seth.» La cameriera mi fissa. Seth?
I tavolini del bar sono vuoti a eccezione di uno, un vecchio sta bevendo da un tazzina. In fondo alla sala c’è una tenda che da alla zona DR.
Mi avvicino al bancone. La cameriera mi guarda e sorride. «Che ci fai qui a quest’ora? Vuoi il solito?»
Annuisco. Si volta per prendere una bottiglia di Bourbon. Me ne versa mezzo bicchiere e me lo passa. Bene, sono un alcolizzato.
«Tutto a posto?» I suoi occhi marroni mi fissano. Si sposta una ciocca di capelli rossi dal viso.
Le dico tutto? Potrebbe aiutarmi.
«Conosci molte cose di me?» Arrossisce. Le piaccio? No, io sono vecchio, lei non avrà più di trent'anni.
«Da quanto tempo vengo qui?» Non le ho lasciato nemmeno il tempo di rispondere all’altra domanda.
«Da parecchio. Troppo.» Ride.
«Tutte le mattine?»
Annuisce. «Ma che ti prende?»
«Mi hai chiamato Seth, il mio DCM dice che mi chiamo Kenny.» Bevo un sorso di Bourbon. È buono!
«Kenny?» Si china in avanti e ride. «Non ti ci vedo come Kenny.»
«Dico sul serio…», nella targhetta elettronica sul camice c’è scritto: Jessica. «Jessica! Ho perso la memoria. E il mio DCM.» Le mostro quello provvisorio e la ferita. «Sapresti aiutarmi a ricordare qualcosa?» Bevo altro Bourbon.
Mi osserva, forse per capire se la sto prendendo in giro. La ferita dovrebbe lasciarle pochi dubbi. «Stacco tra venti minuti.»
«Grazie, ti aspetto al DR».
Prendo il bicchiere e mi incammino verso le poltroncine. Scosto la tenda e passo sotto la scritta luminosa “Digital Relax”, è usurata dal tempo, le due “i” e la “R” non si illuminano più. Il tessuto della poltrona è consumato e macchiato in diversi punti. Mi tolgo la giacca e la lancio nell’altra poltrona. Mi siedo. Sarà vecchia ma è ancora morbida e confortevole. Appoggio il bicchiere sul tavolino di vetro al mio fianco. Di fronte a me un fascio di luce si attiva e appare la scritta: “DCM non trovato”.
Posiziono il DCM provvisorio sul sensore del bracciolo.
«Benvenuto Kenny, gradisci qualcosa da bere?»
«Grazie dolcezza, ho già favorito.»
«Molto bene. Desideri fumare qualcosa?» La voce virtuale non mi lascerà in pace finché non avrò comprato qualcosa.
«Sì. Mostra catalogo». A video compaiono decine di diversi tipi di sigarette. Ruoto la mano verso sinistra. La pagina uno scorre via. La due mostra sigari e pipe. Torno alla pagina uno.
«La ventisette.» Il numero ventisette si illumina. Appare il disegno di un portafoglio con il simbolo del dollaro e un dieci con un meno davanti.
Da terra si apre un varco a forma di rettangolo. Un piattino nero viene trasportato all’altezza delle mie mani, sopra c’è la mia sigaretta al rum lunare. La prendo con due dita e la attivo. Il vetro si illumina di blu. Infilo i due beccucci nelle narici e inspiro. Il rum è molto forte, mi fa lacrimare gli occhi. Faccio uscire il fumo dai polmoni, l’aria si impregna di un odore dolciastro.
«attiva massaggio.»
Nel portafoglio questa volta il meno è seguito dal numero otto. Il piattino scorre in basso e scompare nel pavimento, lo schermo va in standby. La poltrona comincia a vibrare. Lo schienale si inclina indietro, dei cuscinetti mi sollevano i piedi. Le gambe si stendono e una delicata vibrazione mi massaggia tutto il corpo. Inspiro altro rum lunare.
«Dolcezza, attiva cinema.»
Lo schermo si attiva. Scorro tra i titoli dei film: Jurassic Galaxy III, 007 va in pensione, Tessaglia: operazione M.I.S.H.A., Star Wars Episodio XXIV - Skywalker l’imperatore Sith, Final Destination 15, Rambo 6 - L’uomo cibernetico, Batman.
Niente film, preferisco rilassarmi.
«Chiudi», il monitor si disattiva. Tiro giù l’ultimo dito di Bourbon e mi faccio un tiro di rum lunare.
«Seth?»
Apro l’occhio. Jessica è in piedi davanti a me.
«Andiamo.» Prende il bicchiere di vetro vuoto e si incammina verso il bancone.
Mi alzo, mi infilo la giacca e la seguo. La porta scorrevole si chiude alle nostre spalle.
«Guarda» indico un appartamento in fondo alla strada. «Ufficialmente vivo là, ma la casa è disabitata.»
Gli occhi di Jessica si assottigliano. «Eppure vieni qui tutte le mattine.»
Alzo le spalle. «Lo so, ma non abito qui. Vuoi vedere?»
Jessica inclina la testa. «Non sarà mica una scusa per portarmi a casa tua.»
Rido. «No, te l’ho detto, non è casa mia.»
Ci incamminiamo in silenzio. Ha detto che vado al bar tutte le mattine da molto tempo, eppure non sembra conoscermi bene. Ma io non sono un tipo chiacchierone, non me lo ricordo ma l’ho capito.
Saliamo gli scalini. Prendo il DCM e apro la porta.
Jessica caccia un urlo. «Questa casa è favolosa.»
«Favolosa? Ma se non c’è niente?»
«Sì, ma ha un gran potenziale. Tu hai un sacco di soldi, non è vero?»
Scosso la testa. «Ho diecimila dollari sul conto. Non so come possa permettermi questi vestiti, questa casa…»
Jessica annuisce e si lancia sul divano «Di cosa ti occupi?»
«Sicurezza informatica per la Gibson Software.»
Jessica spalanca la bocca. «Ecco dove prendi tutti quei soldi!»
Scosso di nuovo la testa. «Sono l’omino del computer, non il vicepresidente.»
Jessica si alza in piedi e osserva le scale. «Cosa c’è di sopra?»
«Non ne ho idea. Non ci sono andato.»
Si porta le mani sui fianchi. «Senti, se questa casa non ti piace, posso venire ad abitarci io?» Ride e corre su per le scale.
La seguo. Salgo gli scalini sperando che un dettaglio possa aiutarmi a ricordare qualcosa. Magari al piano di sopra qualcosa potrebbe attirare la mia attenzione. Un corridoio lungo da l’accesso a sei stanze. Tutte prive di arredo. Nell’ultima c’è un letto a due piazze e un quadro di un lupo, credo.
«Tutto qui?» Jessica ha lo sguardo imbronciato. «Questa camera non ti sembrano molto più piccola delle altre?»
«E ho deciso di mettere il letto proprio in questa, lontano dalle scale. Se stai pensando che ho il gusto dell’orrido, l’ho pensato anche io.»
Mi avvicino al quadro. «Guarda questo per esempio. È un lupo o un cane? È fatto talmente male che nemmeno da vicino si—»
Il mio occhio sinistro emette un segnale luminoso. Scannerizza il quadro ed emette un bip. Il muro a fianco del letto indietreggia di qualche centimetro e si apre di lato.
«Benvenuto. Signor McKnight.»
«McKnight?» Sarà il mio vero cognome questa volta? Io e Jessica ci guardiamo. Lei ha gli occhi spalancati e il sorriso sul volto.
Entriamo. Dentro la stanza c’è solo un dispositivo elettronico fissato a terra. Proietta l’immagine di un lupo, ben definito questa volta, e una scritta: “Segui il lupo!”
Jessica fissa l’immagine. «Segui il lupo? Che significa?»
Col mio occhio sinistro vedo la scia del lupo uscire dalla porta a muro e sparire nell’altra stanza. «Finalmente una domanda al quale posso rispondere.»
«Col mio occhio finto, posso vederlo.»
«Occhio finto?» Jessica mi guarda come se fossi ubriaco.
Indico il mio occhio sinistro. «Non dirmi che non te ne eri mai accorta…»
Ora mi fissa come se fossi matto. «Ma che stai dicendo?»
«Non vedi che non è un occhio umano?» Lo tocco con la mano.
Jessica si mette a urlare. «Che schifo. Se questo è uno scherzo…»
«Non lo è, non ci vedevo da quest’occhio, ma ora si è come... attivato.»
«Ti assicuro che sembra vero» la sua smorfia mi fa pensare che stia dicendo il vero. «Si muove esattamente come l’altro.»
Ci incamminiamo e seguiamo la scia del lupo fino alla strada. «E ora? Continua fino in fondo e chissà fin dove.»
«Vieni, prendiamo la mia macchina.»

***

La scia conduce dentro un ristorante di lusso.
«Accosta, siamo arrivati.» Le indico il lato della strada.
«Era ora. Dove siamo?» Sterza e ferma il maggiolino.
«Non lo so, ma sembra un posto da soldi.»
«E io sono vestita come una stracciona.»
Rido. Scendiamo dall’auto e ci avviciniamo all’ingresso. Le porte automatiche rimangono chiuse.
Mostro il DCM provvisorio, Jessica mostra il suo.
«Benvenuto signor Blaze. Benvenuta signora Fletcher. Attendere la scansione, prego.» Dei raggi verdi da sopra le porte ci scansionano da testa a piedi. Le porte si aprono. «Ingresso autorizzato.»
Entriamo nella hall e veniamo accolti da un cameriere con lunghi baffi neri e il cranio in acciaio. In mano ha un DCL.
«Buonasera signori, avete prenotato?»
«Ehm, no, ma noi—»
«Prego, da questa parte.» Indica una grande sala sulla sinistra. La scia del lupo continua su per le scale.
«Noi preferiremmo il piano di sopra.» Sorrido e indico le scale.
Il cameriere si mette il DCL sotto un’ascella e unisce i palmi delle mani. «Mi spiace, signore. Ma quel piano è riservato.»
Gli punto contro l’indice. «In questo caso voglio parlare col responsabile!»
Il cameriere alza lo sguardo al cielo, prende in mano il DCL e clicca una volta sullo schermo. «Arriverà subito. Con permesso.» Accenna un sorriso più falso di Giuda e se ne va.
Appena ci gira le spalle corro al piano superiore con Jessica. Giriamo l’angolo e una porta chiusa ci separa dalla sala con gli ospiti.
Maledizione! «Dolcezza. Facci passare.» La scia del lupo continua fino a metà sala.
«Accesso negato.»
«Guarda!» Indico un uomo elegante seduto a un tavolo. «La scia del lupo si ferma su quell’uomo. Lui lo vedo come… circondato da un’aura blu.»
«Che significa?» Jessica mi fissa con le sopracciglia inarcate.
«Non ne ho id—»
Una finestra va in frantumi, da questa posizione non riesco a vederla. L’uomo elegante cade di lato. I commensali urlano e si alzano dal tavolo. In un attimo tutta la sala è in piedi e corre verso di noi. Le porte si spalancano, con fatica mi intrufolo tra la folla.
Mio Dio. L’uomo è steso a terra, con un buco in fronte. Il sangue cola sulle piastrelle luminose. Il vetro della finestra è in frantumi. Sul tetto dell’edificio di fronte c’è… ci sono... io? Mi sta fissando. Devo avere la stessa espressione. Ma chi diavolo è?
«Andiamocene!» Jessica mi tira per un braccio.
Corro di sotto saltando i gradini tre a tre. Esco dalla hall, non c’è più nessun cliente, molti sono ammassati fuori dal ristorante. Mi faccio largo e corro verso l’altro edificio. Dal portone esce… è davvero identico. Continua a guardarmi incredulo. Mi punta contro la mano. La falange con l’unghia si solleva, sotto sembra esserci… è una canna di una pistola? Mi riparo dietro il maggiolino di Jessica. Quel bastardo mi sta sparando! La mia mano bionica farà le stesse cose? La tocco con l’altra mano, non succede nulla. La scuoto, la muovo. Simulo una canna di una pistola con le dita come ha fatto lui, niente. Si fa sempre più vicino, riesco a sentire il rumore dei proiettili uscire dalla canna. Se non faccio qualcosa, sarò presto morto.
La mano bionica si stacca. Non ho tempo di scoprire cosa c’è nel mio avambraccio, attendo il mio sosia e sparo. Il rinculo mi scaraventa indietro. Sbatto la testa sull’asfalto. L’ho centrato, sono sicuro.
Jessica mi aiuta ad alzarmi. «Seth, stai bene?»
«Sto bene, grazie.» All’improvviso si mette a urlare e molla la presa su di me. Mi aggrappo all’auto per non cadere.
«S-sei tu. Seth, perché sei tu quell’uomo?»
Mi avvicino al corpo «Non ne ho idea.» Ha un buco nello stomaco grande quanto il diametro del mio polso. Fuori dal ristorante non c’è più nessuno, la sparatoria ha fatto fuggire tutti. Qualcuno avrà chiamato la polizia, non ho molto tempo per capire.
Giro la mano umana del mio sosia. «Potrei…» Jessica scuote la testa, forse ha già capito. «Provare il suo DCM, potrebbe aiutarci a capire.»
«È un pessima idea!»
Raccolgo da terra la mano bionica e la inserisco nel braccio. «È l’unica che mi viene in mente.»
Il mio sosia ha un laccio cosciale identico al mio, ma la sua fondina è piena. Afferro il manico d'acciaio. È un coltello con una lama lunga. Jessica emette un gemito. Infilo la lama nella carne della mano, taglio i bordi del DCM. Si stacca e cade. Lo raccolgo e lo appoggio sul mio palmo. Entra e si aggancia in automatico. Di solito serve un esperto per install—
«Seth. Seth, stai bene?» Jessica mi scuote. Apro l’occhio.
«Quando hai infilato il DCM sei crollato a terra.» Povera Jessica.
«Ha funzionato! Ricordo tutto. I nostri chip cerebrali hanno un sistema molto più sofisticato dei vostri.»
«I vostri?» Mi guarda con aria svampita. È così carina e simpatica, mi dispiace doverla uccidere.
«Avevi ragione, era una pessima idea!» Raccolgo il coltello e passo la lama sulla sua gola, una scia rossa segue la sua corsa.
E così volevate sostituirmi con questo clone? Sorrido. Trascino Jessica vicino alla portiera del guidatore. Avvicino il suo DCM alla portiera. Il meccanismo di chiusura si sblocca. Uso il DCM sul lettore interno, il maggiolino si mette in moto. Lascio cadere il braccio mentre Jessica emette i suoi ultimi gemiti.
Mi metto alla guida. Le sirene della polizia accompagnano la mia fuga.

Edited by truemet - 1/6/2021, 15:11
 
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view post Posted on 31/5/2021, 07:50
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Custode di Ryelh
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Buongiorno a tutti. Benché tardivamente, abbiamo ricevuto una richiesta di proroga, pertanto la scadenza di questo Skannatoio è prorogata fino alle ore 23:59 di domenica 6 giugno. Chi ha già postato il proprio racconto, può approfittare del periodo aggiuntivo per rivederlo e correggerlo fino alla predetta nuova data di scadenza.
Buon lunedì a tutti
 
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view post Posted on 31/5/2021, 09:01
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Ricevuto!

Vedo se mi viene qualche ispirazione
 
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view post Posted on 1/6/2021, 21:53
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M io li ho giò letti!!!

no, tranquilli, sistemate pure, tanto li ho solo letti. Il lavoro deve ancora cominciare.
 
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view post Posted on 1/6/2021, 22:18

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Ciao a tutti, quindi dal 6 giugno abbiamo due settimane per i commenti vero?
 
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